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La Meloni ripresa da Mattarella sul PNRR: il governo virtuale sempre più in crisi
di Cesare Sacchetti
Il pranzo è stato lungo ma non “cordiale”. Sì, perché a leggere le varie cronache dell’incontro tra Mattarella e la Meloni si ha quasi la sensazione che al Colle si respirasse un’atmosfera idilliaca.
E invece nulla di tutto questo sembra esserci stato al Quirinale in quello che è stato l’incontro più lungo fino ad ora tra il Capo dello Stato e il Presidente del Consiglio.
La discussione è ruotata tutta attorno al cosiddetto PNRR che a leggere sempre le cronache dei vari quotidiani del mainstream italiano sembrano essere soldi che piovono dal cielo, e invece anche qui la realtà è ben diversa.
Attorno al PNRR, la propaganda mediatica ha alzato una vera e propria cortina fumogena. I 209 miliardi di euro di fondi che dovrebbero giungere all’Italia dall’UE sono in larga parte virtuali e già all’inizio della sua approvazione si stimava che i fondi effettivi che avrebbe potuto ricevere l’Italia erano di gran lunga inferiori a quelli dichiarati.
Oltre a questo, c’è un altro aspetto che non viene raccontato al grande pubblico. Non sono prestiti a fondo perduto. Sono prestiti che vanno restituiti con delle condizionalità che nel gergo dell’austerità ordoliberale di Bruxelles non significa altro che la solita ricetta di tagli alla spesa pubblica, privatizzazioni di ciò che è rimasto nelle mani del pubblico e aumento della pressione fiscale.
È la ricetta che è stata seguita pedissequamente per trent’anni da tutti gli esecutivi che si sono instaurati a palazzo Chigi con pochissime variazioni sul tema come quella del 2011 quando l’UE attraverso la sponda del Colle presieduto dall’allora presidente Napolitano, membro dell’Istituto Aspen dei Rockfeller, decise di porre fine all’esperienza del governo Berlusconi.
Berlusconi messo di fronte alla scelta che vedeva da un lato il salvataggio delle sue aziende finite nel mirino della speculazione internazionale e dall’altro il salvataggio dell’Italia, non ci pensò molto. Scelse le prime e votò la fiducia al suo successore, Mario Monti.
È stato un periodo storico dove ha prevalso il perenne e famigerato “pilota automatico” di Draghi nel quale le decisioni sono già prese altrove.
È la logica del commissariamento permanente nel quale le istituzioni nazionali si ritrovano ad essere mere esecutrici di ordini già scritti altrove, molto lontano da Roma, e la classe politica tutta assolve alla funzione di semplice passacarte dei centri di potere dell’alta finanza e del sistema bancario globale.
E il PNRR appartiene completamente a tale logica. È la logica nella quale il sistema Paese e le sue ricchezze vengono distribuite in larga parte a capitalisti stranieri e ai vari oligarchi “italiani” che spostano le sedi fiscali delle loro aziende all’estero, e assumono dipendenti stranieri per abbassare ancora di più i salari.
È esattamente questo il caso di Stellantis che è la vecchia FIAT sotto la nuova identità transnazionale che le è stata assegnata dalla famiglia Elkann.
Il PNRR era l’ultima fase di questo lungo e doloroso piano di spoliazione che precede l’infausta annata del 1992, e affonda almeno le sue radici a quanto decise venti anni prima il club di Roma, potente organizzazione privata fondata dalla famiglia Rockefeller.
Già in quell’epoca si era deciso che l’Italia andava completamente deindustrializzata e portata verso una crisi demografica senza precedenti nella storia di questa nazione.
Il piano è stato attuato senza molti intralci per decenni e la storia degli ultimi 40 anni non è altro che il risultato di un copione già scritto nel quale le comparse rappresentate dai vari partiti hanno avuto solo il compito di pronunciare le battute che il regista dall’alto gli ordinava.
Il PNRR era l’ultimo gradino della completa privatizzazione del Paese, l’assalto finale potremmo dire, ed il motivo per il quale c’è irritazione al Colle è che il piano non sta andando affatto nella direzione voluta.
E questo preoccupa l’inquilino del Colle dal momento che anch’egli è alquanto sensibile ai desiderata di questi centri di potere sovranazionale.
Fu proprio Mattarella a ricevere al Quirinale con tutti gli onori i rappresentanti della Commissione Trilaterale, un’altra organizzazione fondata dalla famiglia Rockefeller, che è stata in pratica la famiglia che ha deciso i destini dell’Italia negli ultimi decenni.
Il piano di svendita fallito con le dimissioni di Draghi
In realtà, tutto il disegno di questi poteri è andato in fumo quando l’anno scorso Mario Draghi decise di lasciare palazzo Chigi. Il garante della spoliazione era lui, il liquidatore specialista che aveva attuato nel 92 la più grande svendita di beni pubblici della storia. Era lui che era ancora una volta disponibile a mettere all’Italia il cappio al collo dei prestiti europei per poi ricevere la ricompensa del Colle.
Lo scambio non si è realizzato. Chi segue questo blog sa che le dimissioni di Draghi erano state già anticipate qui lo scorso gennaio 2022. Non perché si fosse dotati di qualche misteriosa dote taumaturgica ma semplicemente perché si era ricorsi a della pura logica.
A Draghi interessava salire al Quirinale tra il gennaio e il febbraio del 2022 per raggiungere quell’incarico che sulla carta gli avrebbe assicurato grande prestigio oltreché una protezione politica teoricamente blindata.
Le promesse iniziali degli ambienti della finanza e della politica non sono state mantenute. Allo stato profondo italiano faceva più comodo avere il parafulmine di Draghi a palazzo Chigi per addossare a esso i disastri economici e sanitari che le sue politiche avevano e stanno ancora provocando.
L’uomo del Britannia comprese la malaparata e tolse il disturbo e da allora è alla ricerca di un altro incarico che l’establishment internazionale non sembra interessato a dargli.
A certi livelli, nessuno è veramente indispensabile e tutti sono pedine salvo coloro che siedono ai massimi vertici della piramide.
La finanza anglosassone aveva compreso che non c’era più speranze di poter portare in porto il PNRR e lo scrisse.
Da allora il testimone è passato a quella che era la ruota di scorta della politica italiana, Giorgia Meloni, che è stata scelta a ricoprire un ruolo che né lei né nessun altro in realtà voleva avere.
Palazzo Chigi è una poltrona che scotta troppo adesso soprattutto per gli sviluppi che ci sono stati negli ultimi anni.
Sono successi degli accadimenti straordinari. Per dirla con le parole di Massimo D’Alema, non si è fatto i conti con “il ritorno dell’800” e si pensava piuttosto che il mondo sarebbe approdato verso la visione di un Nuovo Ordine Mondiale.
Non è accaduto perché altre forze si sono opposte e il meccanismo inverso si è messo in moto. La globalizzazione si sta tramutando in de-globalizzazione ed ecco dunque che i partiti italiani e i loro leader sono nella condizione di orfani.
Orfani di un sistema che garantiva loro posizioni di potere e protezioni virtualmente illimitate fino a quando essi avessero eseguito gli ordini. Ma se tale sistema si estingue e l’agenda diventa inattuabile da seguire allora cosa accade a chi prova a servire un potere che ormai è stato sconfitto dalla storia?
La Meloni e l’impossibilità di proseguire l’agenda globalista
Deve essere la domanda che si è posta la Meloni sin dal principio e che l’ha portata alla condizione di essere un presidente virtuale.
Lady Aspen sa che non si può più proseguire sulla strada dell’austerità e allora mette in atto un gioco piuttosto sporco.
Provoca in continuazione i suoi “alleati”, minaccia continuamente le dimissioni e insegue disperatamente il casus belli per togliersi di torno esattamente come fece il suo predecessore.
I “compagni” di viaggio della coalizione lo hanno compreso tanto è vero che iniziano a trapelare le prime dichiarazioni critiche nei suoi confronti con accuse alla Meloni di voler scaricare su di loro i suoi fallimenti.
Intanto l’agenda dell’UE è nel pantano, e Mattarella chiama a rapporto la Meloni per sollecitare l’esecuzione del PNRR.
Il programma della decaduta Davos procede a macchia di leopardo con l’ondata di sbarchi record e il contenimento della spesa pubblica ma l’attuazione integrale della agenda globalista resta lontana.
Manca di fatto un governo che possa attuarla e manca quella solida struttura sovranazionale che gli consenta di farlo. C’è un presidente del Consiglio che non vuole assumere alle funzioni per le quali questi poteri l’hanno scelta.
Ieri Repubblica ha scritto nell’articolo intitolato all’incontro con Mattarella che la Meloni “si gioca la credibilità: nei confronti di Bruxelles e dell’establishment nazionale.”
Ma alla Meloni non sembra interessare tanto la credibilità nei confronti di tali referenti. Alla Meloni interessa uscire indenne da questa storia e alzarsi da una poltrona che scotta troppo ed evitare di essere lei l’ultima a mettere la propria faccia sul fallimento dell’intero sistema democratico liberale.
C’è troppa distanza tra i palazzi e la politica e il fossato continua ad allargarsi. Il consenso virtuale creato dai sondaggi scende e l’astensionismo, fenomeno molto reale, invece si gonfia. La politica italiana si trova di fronte ad una crisi di delegittimazione senza precedenti accompagnata da una caduta generale dei referenti che l’hanno guidata negli ultimi decenni.
Siamo già nella fase dell’accanimento terapeutico in realtà. Il sistema è attaccato alle macchine da quando è caduto Draghi.
Da questo momento in poi è probabile aspettarsi l’inasprirsi delle faide all’interno della coalizione in attesa che l’una o l’altra parte faccia saltare tutto per poi accusare l’altro della responsabilità del crollo dell’esecutivo.
Dopo non sembra più esserci nulla e coloro che immaginano fantomatici ritorni di Draghi o persino la Schlein a palazzo Chigi, scenario surreale si pensa che la “leader” del PD non controlla nemmeno il suo partito, non vogliono o possono leggere il momento storico attuale.
Lo status quo degli ultimi decenni è venuto meno. L’Italia non può più restare sotto l’ala del potere transazionale in declino e la classe politica attuale non può più garantire la collocazione dell’Italia in tale assetto.
La stagione delle tecnocrazie si è definitivamente chiusa e i tecnici se ne sono tutti andati perché sanno che la protezione sovranazionale che gli consentiva di restare lì non esiste più.
L’atmosfera che si respira nei palazzi della politica è quella degli ultimi giorni di Pompei. A questo sta probabilmente pensando Giorgia Meloni. A togliersi di torno prima che il vulcano erutti e la lava travolga tutto e tutti quelli che incontra sul suo cammino.
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Siano maledetti.
Laidi