di Cesare Sacchetti Il suo volto in alcune trasmissioni televisive francesi inizia a vedersi...
La rivolta delle imprese contro Merz e l’insostenibilità dell’euro per la Germania
di Cesare Sacchetti
Nel salotto della VDMA, l’associazione tedesca che rappresenta le imprese di ingegneria meccanica, c’è una vera e propria rivolta contro il cancelliere tedesco Merz.
Se si guardano gli ultimi dati dell’economia teutonica, si comprende meglio il perché.
La crescita del PIL è a dir poco anemica da un paio di anni a questa parte, e l’industria pesante del settore automobilistico, un tempo motore dell’economia nazionale, si sta semplicemente dissipando come neve al sole.
Soltanto pochi giorni fa l’Audi ha annunciato la prossima chiusura di altri impianti, e sulla stessa strada sono incamminate altre eccellenze automobilistiche del Paese quali la Porsche e la Volkswagen.
Il settore dell’ingegneria meccanica è il cuore pulsante della Germania, e se questo smette di battere, il Paese semplicemente muore, va incontro al deserto della decrescita infelice già sperimentata loro malgrado dai Paesi del Sud – Europa come Italia e Grecia.
I numeri sono a dir poco impietosi.
Almeno 12mila posti di lavoro in questo settore sono andati in fumo, e nel prossimo futuro non ci sarà nessuna inversione di tendenza, ma piuttosto altri 20mila posti di lavoro che rischieranno di andare in fumo.

Il crollo della produzione industriale in Germania dall’agosto 2024 all’agosto 2025
La Germania è precipitata nel deserto della crisi, e non riesce più a uscirne fuori.
Se si leggono alcuni quotidiani dell’anglosfera quali il Financial Times si sostiene che la crisi economica della Germania sia dovuta sostanzialmente alla politica suicida degli ultimi due anni, che ha imposto sanzioni economiche alla Russia dopo l’inizio della guerra in Ucraina.
Si diceva un tempo nel mondo del sovranismo, nei primissimi anni, che Berlino non aveva una classe politica assoggettata ai diktat dell’alta finanza e dell’anglosfera, ma che cercava la sua strada anche a costo di irritare gli storici referenti della Germania, su tutti il governo dello stato profondo americano.
Sotto alcuni aspetti, era parzialmente vero.
Se Washington in quegli anni era fermamente impegnata a condurre una politica estera fortemente ostile alla Russia, la Germania invece cercava sempre di preservare i suoi affari con Mosca, e sembrava poco disposta ad ascoltare i diktat della Casa Bianca.
Una volta che però si è giunti allo scontro aperto con il Cremlino e con la guerra in Ucraina, la Germania ha deciso di restringere ancora di più il suo perimetro di politica estera, e non ha esitato un istante a imporre sanzioni alla Russia, anche a costo di perdere una rilevante quota di mercato.
Si potrebbe dire che nel mondo dell’Unione europea e dell’anglosfera, esistono delle politiche estere a due velocità.
Se si indossano i panni dell’Italia, allora si è inevitabilmente figli di un dio minore, perché il Belpaese è il nemico per eccellenza di questi circoli sovranazionali che hanno disegnato nel corso degli ultimi 50 anni una vera e propria strategia di guerra verso Roma, per condurla alla sterilità economica e demografica.
Se invece si indossano i panni di Parigi e di Berlino, allora si ha un margine di azione più ampio rispetto a quello di Roma, ma la regola della sovranità differenziata, per così dire, è sparita una volta che l’Unione europea e la NATO si sono viste semplicemente messe all’angolo.
Compreso che Washington non adottava più la politica estera russofoba vista ai tempi dell’amministrazione Obama, Bruxelles e i Paesi dell’Europa Occidentale si sono tutti adoperati per provare a punire la Russia attraverso delle sanzioni economiche, che alla fine non hanno punito nessuno se non gli stessi Paesi europei che l’hanno imposte e che hanno delle economie fortemente impostate sulle esportazioni, in particolar modo proprio la Germania.
L’euro: da jolly della Germania a zavorra
Ciò nonostante le sanzioni non sono sufficienti a spiegare un declino così profondo. La Germania si trova a dover fare i conti con un problema strutturale, ovvero quella della moneta unica che inevitabilmente ha finito per mordere la coda del Paese.
Verso la prima metà degli anni’90, si diceva che la Germania era il malato d’Europa.
L’economia tedesca era fortemente sbilanciata già in quegli anni verso le esportazioni, e il marco pesante di certo non aiutava la competitività tedesca.
A Roma, invece c’era la moneta ideale, vituperata da personaggi non compianti come il bilderberghino Beniamino Andreatta, che voleva uccidere la lira, quando essa invece era la fortuna del Paese.
Se si legge un titolo del Corriere della Sera del 1996, si ha l’impressione di essere trasportati in una dimensione parallela.

L’articolo del Corriere del 14 febbraio 1996
A via Solferino si scriveva che la lira era la protagonista della risalita dell’Italia dopo l’annus horribilis del 1992, quando intenzionalmente Ciampi difese scelleratamente il cambio fisso contro il marco pur di restare nello SME, mentre la Germania faceva fatica a decollare per via di una moneta troppo pesante.
I cambi flessibili semplicemente stavano dicendo che l’Italia ceteris paribus era di gran lunga più competitiva della Germania, e se avesse continuato ad avere in tasca la sua moneta, e se avesse al tempo stesso conservato la sua industria pubblica, non ci sarebbe stata partita.
Roma avrebbe surclassato Berlino, e l’Italia sarebbe stata il Paese leader d’Europa.
Non era però il destino che avevano in mente i vari globocrati del club di Roma, del gruppo Bilderberg, e delle Commissione Trilaterale.
Roma doveva morire, e Maastricht doveva nascere per adottare l’analogia di un altro bilderberghino quale Enrico Letta.
Ad eseguire l’economicidio del Paese, pensò la quinta colonna composta dai soliti Ciampi, Napolitano, Prodi, D’Alema, Mario Draghi e Mario Monti, ognuno dei quali si impegnò per eseguire le direttive di politica estera ed economica che venivano da Bruxelles, Berlino e Washington a tutto beneficio del grande capitale tedesco, e a discapito dell’economia italiana, spolpata e deindustrializzata dall’adozione della moneta unica, troppo pesante per l’Italia e soprattutto non nella disponibilità del Paese.
Una volta tolta all’Italia la possibilità di svalutare la sua moneta e soprattutto di stamparla, Berlino ha gioco facile a vincere una partita truccata, grazie ad una moneta invece svalutata e in grado di gonfiare le sue esportazioni.
Il malato d’Europa si tramuta così nella locomotiva d’Europa, ma l’euro ha una sorta di bug che sulla lunga distanza finisce per falcidiare tutti.
L’euro è sostenibile soltanto se i vari Paesi dell’eurozona seguono l’agenda dell’austerità, dal momento che se si inizia a fare deficit si creano degli squilibri con le importazioni impossibili da riallineare senza svalutare la moneta.
L’assurdità dell’euro è nel suo stesso meccanismo, difeso strenuamente dalla Germania per anni.
Si ricorderanno falchi del passato come il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schauble, altro membro del Bilderberg, che imponeva a tutti il pareggio di bilancio proprio nel tentativo di preservare la regola dell’euro che alla lunga però uccide Berlino stessa per il semplice fatto che se i vari Paesi europei continuano a tagliare o contenere la spesa pubblica e ad aumentare la tassazione, questi non potranno più continuare a comprare le merci tedesche.
Si spiega così un declino tedesco iniziato già parzialmente in tempi non sospetti, nel 2019, prima della farsa pandemica, e nell’ultimo periodo dell’era Merkel.
I dati dicono che già nell’ultimo trimestre di quell’anno, il PIL della Germania aveva fatto registrare un segno negativo, -0,3%, e anche nei primi mesi del 2022, quando gli aumenti delle sanzioni, in essere già da anni, contro Mosca non erano stati ancora approvati, Berlino aveva una crescita anemica.
Situazione persino peggiore per la produzione industriale del Paese che aveva iniziato a precipitare già nel 2018 con un pesantissimo -4% seguito da altri segni negativi per tutto il 2019.
La locomotiva era già sul tempo di deragliare in quel tempo, e le sanzioni sono state soltanto come del sale su delle ferite che erano già aperte.
Evaporata la forza economica della Germania, è sparita conseguentemente anche la sua rilevanza geopolitica.
I cancellieri dell’era post-Merkel sono a dir poco impalpabili.
Scholz, il successore della Merkel, si è semplicemente limitato ad eseguire le direttive che Bruxelles gli passava.
In nessun momento, la Germania provava a prendere le distanze dalla folle guerra economica contro Mosca, né tantomeno qualcuno dentro la classe dirigente tedesca sollevava la questione della insostenibilità dell’euro.
Berlino, oggi, paradossalmente si trova nelle stesse condizioni di Roma.
Ha un disperato bisogno di fare spesa pubblica, ha un disperato bisogno di uscire dal perimetro della moneta unica, di tornare ad avere una propria moneta e di far crescere la domanda interna.
Il successore di Scholz, Merz, si trova in una condizione ancora peggiore.
Merz dovrebbe essere sostanzialmente l’uomo della continuità.
Il suo profilo è quello del politico standard europeo legato a doppio filo a fondi di investimento come il famigerato BlackRock.
Se si guarda alla sua manovra economica, si troveranno massici investimenti non a sostegno delle imprese tedesche, ma soprattutto al settore della Difesa, che Berlino sembra voler continuare a pompare, anche nell’ottica di un supporto a Kiev, ormai allo sbando e travolta dalla netta superiorità militare russa.
Berlino avrebbe bisogno come gli altri Paesi UE di iniziare a intraprendere un cammino che non sia quello che porta nella crisi permanente e nella violenta deindustrializzazione per via dell’insostenibilità della moneta unica.
La Germania ha bisogno come tutti della sua moneta per iniziare a ricostruire quello che l’euro sta distruggendo, ma come gli altri Paesi europei, sembra destinata ad una violenta caduta.
La classe politica tedesca è al servizio dell’eurocrazia e di ciò che resta dell’anglosfera.
Merz andrà probabilmente avanti per la sua strada, nonostante i segnali di una implosione economica del Paese sono ormai chiarissimi e insostenibili per una Germania sempre più in crisi.
La fotografia di Aquisgrana del 2019 a questo appare soltanto come un lontano e sbiadito ricordo.

Macron e Merkel firmano il trattato di Aquisgrana nel 2019
Si diceva all’epoca che l’asse franco-tedesco sarebbe stato ciò che avrebbe garantito la tenuta dell’Unione europea, ma non si disse però che senza il sostegno di Washington tale asse era soltanto una tigre di carta, un’alleanza che non aveva e non ha la forza di reggere nulla perché la fragile impalcatura dell’euro e dell’Unione stava in piedi soltanto perché lo voleva l’impero americano.
Nello stesso istante in cui Washington ha iniziato a imporre i dazi all’Unione, le fragilità strutturali di un blocco che dipende dalle esportazioni verso gli Stati Uniti, sono venute tutte alla luce.
L’Unione europea non esiste senza Stati Uniti d’America ed è una evidenza impossibile da cambiare.
Si è entrati quindi nella fase terminale della storia di Maastricht, quella nella quale ci sarà una generale implosione di questo blocco ormai non più in grado di sopravvivere.
Il “paradosso” è che il Paese che si sta rivelando il vero tallone d’Achille della fragile Unione è proprio la Germania, la ormai ex locomotiva d’Europa.
Nel futuro dei Paesi europei non c’è di conseguenza certamente l’euro.
C’è il marco, il franco e la lira, e il sentimento popolare verso un ritorno alle monete nazionali.
Anni addietro, nel 2012, quando ancora la Germania poteva approfittare della moneta unica, i tedeschi già esprimevano comunque contrarietà nei riguardi della moneta unica, vista come una sorta di peso per il Paese.
Se glielo si chiedesse ora, probabilmente in tutta risposta si avrebbe un vero e proprio plebiscito.
Se si chiedesse ai tedeschi se vogliono ancora avere l’euro in tasca o se preferirebbero il marco, ci sarebbe una vera e propria sollevazione popolare a favore della vecchia moneta tedesca.
Merz deve quindi prestare molta attenzione. L’ordine che sta difendendo è ormai insostenibile.
La Germania non può più permettersi di restare nell’eurozona.
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Buongiorno, Cesare. Ho parenti in Spagna e nel nord Italia, e tutti pensano e dicono di detestare l’euro e che preferirebbero tornare alle vecchie monete nazionali, che garantivano loro libertà e sovranità. Da Mendoza, Argentina: un grande saluto.
Grazie Isabel. Sì, certamente. Il sentimento contro l’euro è diffuso ovunque.